Oggi un pezzo di Giuseppe Lo Bianco su “Il Fatto Quotidiano” rompe il silenzio indecente ed assordante relativo alla vicenda delle indagini “ostacolate” su Provenzano e Messina Denaro, coraggiosamente denunciata dal Mar. Saverio Masi.
Ricordiamo che Saverio Masi è lo “scomodo” investigatore “troppo” efficiente ed onesto che è stato rimosso dal reparto investigativo dei CC, e al contempo processato e condannato per una vicenda kafkiana di uso non autorizzato dell’auto privata per le indagini (sic!). SOLO DOPO LA CONDANNA, come da correttamente conto l’articolo, “HA VISTO SALTARE FUORI LE AUTORIZZAZIONI ALL’USO DELL’AUTO PRIVATA PER LE INDAGINI (COSTATAGLI UNA CONDANNA DEFINITIVA A SEI MESI) ATTESTANDO COSÌ LA SUA CORRETTEZZA, nell’inchiesta della Procura militare di Roma che ha condotto alla richiesta di rinvio a giudizio del colonnello Sottili per diffamazione dei due”. Chiediamo su queste gravi notizie, che per logica si correlano al contesto della “Trattativa”, la massima condivisione per rompere il muro del silenzio e esercitare il massimo di risposta civile e riflessione critica su quanto sta accadendo all’interno delle istituzioni e delle forze che sono preposte per legge al contrasto dei massimi livelli di Cosa nostra e delle protezioni istituzionali di cui è altamente probabile possa godere a tutt’oggi Matteo Messina Denaro.
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«Pc spariti e ascolti interrotti: così i boss scappavano – Nel processo sulla mancata Cattura di Provenzano e Messina Denaro i misteri di otto anni di fughe» di Giuseppe Lo Bianco da “Il Fatto Quotidiano” del 1 maggio 2016
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Per essere destinato a Palermo, inviò da Serajevo un biglietto al generale Gualdi che recitava così: “Mi dia l’incarico e le servirò Provenzano su un piatto d’argento”. Ma quando arrivò alla guida del reparto operativo dei carabinieri, nel settembre 2002, il generale Nicolò Gebbia, oggi in pensione, si accorse di essere stato “preso in giro e condotto per il naso verso direzioni che non erano quelle che avrebbero potuto assicurare alla giustizia i principali latitanti di mafia”. Il verbale di Gebbia, allegato agli atti dell’inchiesta sulle accuse all’interno dell’Arma per la presunta protezione offerta al capo corleonese negli anni precedenti il suo arresto, avvenuto a Corleone nell’aprile del 2006, rilancia dunque tutti gli interrogativi su una stagione, quella della “protezione istituzionale” del latitanza di Bernardo Provenzano sulla quale persistono ancora numerosi punti oscuri e interrogativi riproposti anche dalle deposizioni di una decina di ufficiali e sottufficiali dei carabinieri che hanno raccontato di intercettazioni improvvisamente interrotte, pedinamenti negati, della misteriosa sparizione di un file con notizie sui latitanti nei computer investigativi (denunciata alla polizia postale e archiviata perché ritenuta uno scherzo), e persino di una microspia trovata dentro una gazzella.
Elementi sintomo di un clima fortemente diffidente tra gli investigatori della Carini negli anni in cui il reparto era guidato dal colonnello Gianmarco Sottili, tutti ora agli atti dell’inchiesta nata dagli esposti di due sottufficiali, Saverio Masi, oggi caposcorta del pm Nino Di Matteo, e Salvatore Fiducia (indagati a loro volta per calunnia), nei confronti di cinque ufficiali accusati di avere ostacolato la cattura di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro negli anni che vanno dal 2001 al 2008.
Per tutti, denuncianti e denunciati, la procura di Palermo ha chiesto l’archiviazione, ritenendo non riscontrati i fatti perché avvenuti alla sola presenza dei protagonisti. Tranne in un caso, il mancato sequestro di un computer a casa dell’ex consigliere provinciale Udc Giovanni Tomasino, che il capitano Vincenzo Nicoletti ritenne di non sequestrare. In questo caso la denuncia di Masi, scrivono i pm, è stata riscontrata e per Nicoletti, indagato per favoreggiamento, la procura ha applicato la prescrizione. Nicoletti è lo stesso ufficiale che, racconta Masi, gli disse: “Noi non abbiamo alcuna intenzione di prendere Provenzano.
Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi che te lo diamo…”. E anche in questo caso le parole di Masi sono state riscontrate, in modo indiretto, da un altro maresciallo, ragion per cui la Procura ha escluso “la configurabilità del reato di calunnia” a carico di Masi. Che, beffa della sorte, ha visto saltare fuori le autorizzazioni all’uso dell’auto privata per le indagini (costatagli una condanna definitiva a otto mesi [anche se nell’articolo è scritto otto mesi, in realtà la condanna è di sei mesi, ndr]) attestando così la sua correttezza, nell’inchiesta della Procura militare di Roma che ha condotto alla richiesta di rinvio a giudizio del colonnello Sottili per diffamazione dei due.
fonte: il Fatto Quotidiano 1 maggio 2016